LE PROBLEMATICHE SOCIO-GIURIDICHE

CONNESSE ALLIMMIGRAZIONE ISLAMICA

IN EUROPA CON PARTICOLARE RIGUARDO

ALLA SITUAZIONE ITALIANA*

 

Carlo De Angelo

 

Naples

 

This study deals with the migration flows from Islamic countries, or countries with large Islamic populations, to Europe. Particular attention is paid to the factors that explain these flows from the 1950s to the 1970s. After the restrictive policies or closure introduced in the 1970s, migration shows a clear trend towards permanent settling and takes on new and more defined characteristics. The social-juridical consequences related to these transformations are examined here. The second part of the study describes differences between the Italian and the more general European situation. Sizeable Islamic presence in Italy is a relatively new phenomenon, dating back largely to the 1980s. Unlike elsewhere in Europe, Islam has established itself very rapidly. The whole typology of Islamic institutionalized presence characteristic of other European countries is already visible. As elsewhere, the Islamic community—particularly through the action of the UCOII, the most representative umbrella organization—is trying to reach an intesa (agreement) with the government to obtain a status comparable with that of other religious minorities. However, as of this writing, the process has not yet officially begun. This can be ascribed in particular to the problem of determining which Islamic body should be taken as the legitimate representative of the Muslim communities. With reference to other juridical problems (mosques, ḥalāl food, cemeteries, ḥiǧāb, marriage, etc.) the paper defends the position that a sustainable immigration policy should be able to reflect the interests of both immigrants and native inhabitants. The most effective strategy, it would seem, can be worked out within a cross-cultural perspective that recognizes that confrontation and dialogue are possible, indeed necessary, among cultures sharing a common core of values and principles, that is to say, a common acceptance of universal human rights. [28]

1. Levoluzione dellimmigrazione islamica in Europa e del relativo processo di visibilitÀ

La presenza di circa dieci milioni di musulmani residenti nellUnione Europea si è costituita tramite consistenti flussi migratori, che negli ultimi cinquantanni si sono diretti in Europa, avendo per lo più come provenienza paesi africani ed asiatici in cui la religione islamica è del tutto prevalente o almeno molto diffusa. Con la stabilizzazione degli immigrati nei vari paesi europei si è poi verificata la ricostituzione e la nuova costituzione di nuclei familiari che hanno determinato la comparsa delle nuove generazioni, spesso in possesso della cittadinanza degli Stati di accoglienza. Linsieme di queste due componenti, ossia i residenti stranieri originari di paesi islamici a cui va aggiunta la seconda e terza generazione di origine immigrata, costituisce la presenza islamica in Europa occidentale.[1]

Il processo migratorio da cui trae origine questa presenza si è andato sviluppando attraverso levolversi di quattro cicli migratori:[2] dal 1945 alla fine degli anni sessanta; dalla fine degli anni sessanta al 1973; dal 1973 al 1980; dal 1980 ad oggi.

I primi due cicli, cioè quelli che hanno avuto luogo fra il 1950 e il 1970, possono esser trattati congiuntamente dal momento che in entrambi i casi i flussi provenienti dai paesi islamici erano inseriti in un processo di trasferimento di manodopera che si verificava prevalentemente secondo accordi tra Stati o istituzioni di primo piano,[3] un trasferimento che risultava funzionale sia ai paesi di provenienza che a quelli di destinazione.[4] Questi ultimi, infatti, furono spinti dalla carenza di risorse umane indispensabili alla ricostruzione postbellica (anni 50–’60, primo ciclo migratorio) nonché dal successivo lungo periodo di crescita economica [29] che interessὸ i paesi dellEuropa nordoccidentale (anni 60–’70, secondo ciclo migratorio), ad una progressiva espansione dei rispettivi mercati del lavoro, così da incorporare lavoratori provenienti non solo da paesi europei meno sviluppati (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda) ma anche, e poi successivamente in maniera esclusiva, da paesi non europei, comprese le colonie e le ex colonie.[5] Dal canto loro, queste ultime, incoraggiati dallelevata domanda di manodopera nellEuropa nordoccidentale, cominciarono ad attuare politiche atte a promuovere lesportazione di forza lavoro, individuando così nellemigrazione la strategia più adatta a risolvere quei problemi connessi alloccupazione e alla bilancia dei pagamenti[6] che erano considerati di impedimento allo sviluppo economico.

Una delle caratteristiche di questi primi due cicli migratori è quindi rintracciabile nel fatto di essersi sviluppati perpetuando quei legami di familiarità instaurati tra alcuni paesi durante il periodo coloniale. Anche se questa non è stata una costante assoluta, tuttavia gli emigrati hanno spesso scelto come meta i paesi con cui avevano avuto relazioni coloniali e che risultavano quindi più familiari;[7] questo spiega perché tutti gli Stati europei che hanno conosciuto unimmigrazione più antica, abbiano oggi popolazioni immigrate caratterizzate dalla netta preponderanza di una o due nazionalità specifiche.[8]

I musulmani, che nel ventennio 19501970 si recavano nel Vecchio Continente, vivevano lemigrazione come unesperienza temporalmente limitata al periodo necessario per concretare quel progetto di accumulazione monetaria che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto migliorare, una volta tornati al paese dorigine, le proprie condizioni socio-economiche.

[30] Unimmigrazione così intesa, cioè motivata da ragioni squisitamente economiche e vissuta nella congettura di un ritorno, faceva sì che le strategie di inserimento degli immigrati nella società di accoglienza fossero minime, limitate allambito lavorativo. Questo spiega perché i musulmani non avanzassero, nel periodo considerato, richieste volte alla pubblica esplicitazione della propria appartenenza allislam, preferendo piuttosto relegare questultimo alla dimensione privata e domestica.[9]

La crisi petrolifera del 1973[10] svuotὸ la costruzione illusoria formatasi negli anni del dopoguerra europeo attorno alle dinamiche migratorie.

La recessione economica, conseguente alla carenza di «oro nero», provocὸ, nei paesi europei importatori di manovalanza, un notevole incremento del tasso di disoccupazione sia tra gli autoctoni che tra gli stranieri. Per far fronte a questa situazione furono adottate, da un lato, misure volte a chiudere le porte ad ogni ulteriore afflusso di lavoratori non comunitari, dallaltro, senza successo, politiche finalizzate a favorire il ritorno in patria degli immigrati.

Per questi ultimi, infatti, la chiusura delle frontiere nordeuropee e le politiche che miravano a favorire il rimpatrio nei paesi dorigine, hanno contribuito a modificare la percezione dellesperienza migratoria: limpossibilità di porre in essere percorsi migratori temporanei o cadenzati da ritorni periodiciin quanto se fossero tornati nei propri paesi non avrebbero avuto più la possibilità di rientrare in Europali spinse a prendere coscienza del fatto che, viste le scarse attrattive economiche degli Stati di provenienza, rimaneva loro ununica opzione, ossia lo stanziamento definitivo nei paesi del Vecchio Continente dove avevano vissuto fino ad allora.[11]

Questa presa di coscienza ebbe come diretta conseguenza linnescarsi del terzo dei quattro cicli migratori. Fino a quando lemigrazione venne percepita come unesperienza limitata nel tempo, a raggiungere lEuropa furono solo gli uomini, mentre mogli e figli restavano nei paesi dorigine. Nel momento in cui, invece, lemigrazione mutava da temporanea [31] in permanente, e quindi i paesi nordeuropei divenivano lorizzonte di vita definitivo degli immigrati, costoro si adoperarono affinché venissero raggiunti dai propri familiari, possibilità questa garantita dallistituto del ricongiungimento familiare.[12] Ecco perché questo terzo ciclo migratorio fu caratterizzato prevalentemente dalla presenza di donne e bambini e si sviluppὸ con caratteristiche molto diverse da quelle precedenti: se nelle due fasi precedenti i rapporti interessavano solo lambito strettamente economico e professionale, con la ricostruzione dei nuclei familiari, la presenza delle donne, la crescita delle nuove generazioni, sorgono problemi e bisogni nuovi, attinenti ai vari ambiti della vita, che diventano altrettante occasioni per avviare relazioni più ampie e diversificate con i diversi settori della società e con le istituzioni dei vari paesi.[13] È negli anni 70, quindi, che prende il via quel graduale processo mediante il quale limmigrato passa da unidentificazione etno-nazionale ad una prettamente religiosa (un processo che col passar del tempo perderà il suo carattere di gradualità, per acquisire quello di immediatezza. Questa avvenuta evoluzione trova nellislam italiano il suo esempio concreto). Il mutamento dei progetti migratori degli immigrati musulmani maschiche ha come conseguenza la presenza in Europa delle loro famiglie e quindi anche di giovani da educare e da socializzare allislame la scomparsa della funzione economica di tali migrazioni[14]che vanifica lo scopo dellemigrazione stessa, ossia laccumulazione monetaria[15][32] ebbero, come corollario, il rafforzamento di quella domanda di islam che fino ad allora era stata molto debole.[16] Vengono, quindi, avanzate le prime istanze finalizzate ad un più adeguato inserimento di questa nuova presenza nelle istituzioni dei paesi europei. Queste ultime non incontrano particolari problemi a soddisfare le richieste più semplici, come ad esempio quelle relative al regime dietetico dei nuovi arrivati. Più difficile da soddisfare, in quanto interferiscono con vigore nella vita delle popolazioni autoctone, sono, invece, le richieste connesse allesercizio di quelle pratiche cultuali per espletare le quali si rivela funzionale loccupazione di «spazi» pubblici: l’‘aid al-kebīr, per esempio, che vede nei quartieri musulmani tra comportamenti furtivi condurre in casa il montone che sarà ucciso dal capofamiglia. Condotte che rinviano alle società agrarie e pastorali e che incrinano la vita quotidiana. Il puzzo delle viscere versate nelle spazzature, le fognature che si occludono, pelli di montone da conciare; i vicini non musulmani che si inquietano; le società protettrici di animali che gridano, qua o là, alla barbarie. Un modus vivendi dovrà essere trovato un po alla volta. Ma non cè ancora. Come per il periodo di ramadan, il nono mese dellanno islamico, effervescente, col tempo quotidiano che si rovescia tra giorno e notte. Che, in particolare allorché avviene nel periodo estivo, è allorigine di notti calde e agitate, dove lallegria degli uni si scontra con lirritazione degli altri.[17]

Senza risposta rimane, poi, la richiesta di introdurre, mediante corsi di religione islamica o con lapertura di scuole islamiche, lislam nello spazio scolastico.[18]

A partire dagli anni ottanta si assiste alla nascita di un nuovo ciclo migratorio, il quarto. Questo, rispetto ai precedenti, appare poco definito sia [33] per il venir meno dei legami esclusivi tra i paesi di partenza e quelli di arrivo,[19] sia per la presenza non solo di immigrati economici ma anche di rifugiati.[20] Altro elemento di differenziazione è individuabile nel fatto che, a partire da questi anni, gli immigrati si dirigono, spesso clandestinamente,[21] verso quei paesi (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) ritenuti non molto attraenti dal punto di vista economico,[22] ma facilmente accessibili perché privi di legislazione riguardante limmigrazione o perché i controlli allingresso sono facilmente eludibili. Tuttavia, proprio per queste caratteristiche, gli Stati della sponda meridionale dellEuropa vengono spesso considerati, dagli immigrati, come paesi di primo accesso, da cui possibilmente proseguire il loro viaggio in direzione delle più appetibili regioni del Nord Europa. Essendo perὸ effettuato, da queste ultime, un severo controllo, di solito Spagna ed Italia rimangono luogo definitivo di immigrazione e vi si innescano le fasi successive del ciclo migratorio, in cui gli immigrati intrecciano relazioni molteplici con la società di accoglienza attuando la loro stabilizzazione al suo interno.

Pacini sottolinea come il carattere complesso e fluido di questo ciclo si è ulteriormente rafforzato a partire dagli inizi degli anni novanta, con la formazione di nuovi consistenti flussi provenienti dai Balcani in seguito al crollo dei regimi comunisti. Si tratta anche in questo caso di flussi difficilmente controllabili, in cui i motivi economici, sociali e politici si sovrappongono, per la presenza di situazioni conflittuali nellarea, si pensi alla recente guerra del Kosovo, o per il collasso delle istituzioni dello Stato e della società, come è avvenuto in Albania. Situazioni similari spingono perὸ allemigrazione anche in altre aree, in particolare il Kurdistan turco ed iracheno. Una novità di questi flussi è costituita dalla composizione demografica: i nuclei familiari costituiscono una percentuale più importante al loro interno, per cui arrivano in Europa, e soprattutto in Italia, donne e bambini, accanto a uomini, come [34] primi immigrati. Inoltre, dal punto di vista dellappartenenza culturale, ancora una volta predomina la composizione islamica.[23]

A partire dagli anni ottanta, cambia il profilo dei nuovi immigrati: se fino alla metà degli anni Settanta prevaleva quasi esclusivamente una popolazione rurale ed analfabeta, ora si accentua considerevolmente la parte di popolazione giovane, urbana ed alfabetizzata.[24] Popolazioni create dallo sviluppo del sistema scolastico nei paesi di provenienza con deboli sbocchi professionali. Popolazione attratta sia da una «socializzazione anticipata» verso il consumo, sia da una socializzazione verso il lavoro. Sono queste popolazioni che hanno fatto sorgere e sviluppare lislam europeo.[25]

Negli anni ottanta e novanta lappartenenza islamica comincia ad essere espressa in maniera sempre più esplicita dalle popolazioni immigrate musulmane, che proseguono così quel cammino di visualizzazione e di istituzionalizzazione avviato già negli anni settanta. La manifestazione della adesione al messaggio di Allah, da parte degli immigrati, avviene mediante una serie di richieste, soddisfacendo le quali si arriverebbe ad ottenere per lislam uno statuto paragonabile a quello che gli Stati europei hanno concesso alle altre confessioni religiose, inserendolo così tra le componenti del sistema socio-giuridico europeo. Le richieste in questione possono essere così riassunte:

 

1. rivendicazioni che hanno delle ricadute sullorganizzazione e la gestione degli spazi pubblici urbani: costruzione di moschee, creazione di spazi cimiteriali destinati alle sepolture rituali islamiche, concessione di spazi idonei per la macellazione rituale;

2. rivendicazioni concernenti lorganizzazione del lavoro consistenti nella richiesta di orari e calendari flessibili che permettano ai credenti di onorare gli obblighi religiosi (le cinque preghiere quotidiane, ramaḍān, festività religiose);

3. rivendicazioni riguardanti lorganizzazione del sistema educativo: linsegnamento della religione islamica nella scuola pubblica, la possibilità di aprire scuole private islamiche, il ritorno ad unorganizzazione scolastica separata in base al sesso, la possibilità di indossare segni di appartenenza culturali nelle classi (per esempio il ḥiǧāb); [35]

4. rivendicazioni finalizzate ad ottenere lapplicazione dello statuto personale islamico alle controversie familiari che coinvolgono i musulmani a prescindere dalla loro cittadinanza.[26]

 

Per quanto riguarda le problematiche gestibili a livello locale, ossia quelle elencate al punto a, le risposte delle istituzioni europee sono state positive; in merito alle altre richieste, invece, il cui espletamento ricade nella competenza delle amministrazioni localisia pur nel quadro delle leggi nazionalio degli organi centrali dello Stato, sorgono problemi, oltre che di ordine specificamente giuridico, anche di ordine pratico: si pensi alle notevoli difficoltà incontrate dagli Stati europei di immigrazione nellindividuare, anche tra i musulmani in essi residenti, così come è avvenuto in precedenza per gli appartenenti alle altre confessioni religiose, [36] interlocutori rappresentativi di tutta la comunità islamica locale con cui trattare le questioni connesse al suo status giuridico. Le difficoltà riscontrate da parte degli Stati europei nellindividuare tali interlocutori sono strettamente connesse al carattere di frammentarietà che connota le organizzazioni islamiche europee. Questa difficoltà è dovuta ad un fatto strutturale allinterno dellislam, che non conosce, ad eccezione dell islam sciita, alcuna forma di clero o di gerarchia connessa al culto. Poiché tradizionalmente nellislam la sfera prettamente religiosa e la sfera temporale sono strettamente unite e si legittimano reciprocamente, in concreto è lautorità politica, religiosamente legittimata, a controllare e gestire tutto lapparato religioso. Negli Stati musulmani moderni questo avviene tramite il ministero per gli Affari religiosi. Nellambito dellemigrazione musulmana in Europa le situazioni tuttavia diventano assai complesse: da un lato nelle società europee la sfera dello Stato e quella delle confessioni religiose sono distinte ed indipendenti, per cui lo Stato non gestisce organismi o attività religiose. Dallaltra i musulmani presenti in Europa provengono da una molteplicità di Stati e appartengono a una varietà di movimenti e correnti diverse, per cui diventa arduo per loro esprimere una rappresentanza unitaria.[27]

2. Lesperienza italiana

Limmigrazione islamica in Italia presenta, rispetto a quella dOltralpe, più differenze che analogie.

Diversi sono stati, innanzitutto, i tempi e le modalità del rispettivo divenire.

Infatti, differentemente dai paesi nordeuropei, lItalia è diventata terra di immigrazione senza volerlo e senza neppure saperlo: una decisione che si sono incaricati di prendere i fatti anziché la politica. Alla metà degli anni 70, a partire dalla chiusura delle frontiere decise dalle nazioni di antica, tradizionale immigrazione del Centro-Nord europeo, in risposta alla crisi provocata dal primo shock petrolifero, il nostro paese divenne per un disorientato esercito di immigranti quello che in gergo gli esperti chiamano un second-best, unalternativa meno gradita ma praticabile.[28] Limmigrazione straniera in Italia è iniziata, quindi, in un periodo, la seconda metà degli anni settanta, in cui la domanda di lavoro si riduceva drasticamente e aumentava per contro, e in misura consistente, [37] la disoccupazione. Si spiega così la singolare caratteristica del fenomeno immigratorio italiano rispetto a quello in precedenza registrato nei paesi nordeuropei. In questi ultimi, infatti, lingresso della forza lavoro straniera fu, dallo Stato, guidata e concentrata nelle aree di elevata industrializzazione dove, a causa della piena occupazione, le fabbriche non trovavano più braccia disponibili tra i lavoratori nazionali. Viceversa, in Italia gli immigrati non solo sono arrivati «spontaneamente», offrendosi ad un sistema produttivo che non si era ancora reso conto di averne bisogno, ma hanno trovato lavori ed occupazione, in gran parte precari ed illegali, prima nellarea meridionale della penisola, meno industrializzata e a più forte tensione occupazionale, e poi nei grandi centri urbani.[29] Se ne deduce, di conseguenza, che limmigrazione straniera verso lo «Stivale» ha mosso i primi passi quando oramai appariva superata la fase dei flussi ordinati e univocamente direzionati, che nascevano dal reciproco e a volte esplicito (in termini di legislazione, di servizi pubblici apprestati) interesse economico del paese di emigrazione e di quello di immigrazione. Si puὸ dunque dire, riassumendo, che il movimento migratorio verso lItalia, così come verso gli altri paesi dellEuropa meridionale, sia stato caratterizzato dal fatto di sorgere in concomitanza con il declino del ruolo trainante della grande industriache riduce dappertutto il suo contributo alloccupazione[30]quale fattore di attivazione della domanda di lavoro[31] e del suo effetto di richiamo.

Nellanalizzare, quindi, i fattori che hanno portato la penisola italiana a diventare area di destinazione delle migrazioni extracomunitarie, piuttosto che ai fattori di attrazione (pull factor), un grande rilievo va assegnato alle cosiddette motivazioni esterne, riconducibili, oltre che alle restrittive politiche migratorie adottate dai tradizionali paesi europei di accoglimento, anche allenorme effetto spinta attribuito ai fattori di espulsione (push factor) nei paesi di partenza.[32]

[38] Analogamente a quanto già avvenuto negli altri paesi europei, anche in Italia i primi ad arrivare sono gruppi composti, quasi esclusivamente, da maschi. Si tratta di nuclei di immigrati tunisini che trovano occupazione in Sicilia nel settore della pesca, in particolare presso il porto di Mazara del Vallo, e, in misura inferiore, in quello agricolo, dove vengono impiegati soprattutto nel Ragusano, località in cui sono molto diffuse le coltivazioni in serra.[33] Successivamente si comincia a segnalare l'arrivo dei marocchini, i quali si distribuiscono su tutto il territorio nazionale, dedicandosi, soprattutto nelle regioni meridionali, al commercio ambulante. Gli egiziani,[34] invece, che in questa fase sono il gruppo nazionale maggioritario, si impiegano nellarea della piccola impresa del nord.[35]

Un altro elemento che contribuisce a rendere peculiare il caso italiano nel panorama dellislam europeo è una presenza etno-nazionale fortemente [39] variegata. Infatti, sebbene, oggi, la comunità con il più alto tasso di crescita sia rappresentata dai marocchini, la popolazione immigrata islamica residente in Italia è caratterizzata dalla presenza di altre consistenti componenti etniche e nazionali, quali ad esempio quella albanese e senegalese. Tra i musulmani immigrati nella penisola italiana manca, perciὸ, a differenza di quanto avviene in paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna dove esiste una matrice etnica dominante nellimmigrazionemaghrebini per la Francia, indopakistani per la Gran Bretagna e turchi per la Germaniaun gruppo etno-nazionale in grado di monopolizzare il campo immigratorio.[36] La frammentazione etnica è dovuta nel caso italiano a due fattori. LItalia non ha mai trattenuto relazioni privilegiate con le sue ex colonie:[37] non si è mai verificata unimmigrazione massiccia dalla Somalia, dallEtiopia o dalla Libia. Il sistema coloniale italiano era basato su un assetto di protettorato o di indirect rule, fatto che ha relativamente ammorbidito tutta la fase della decolonizzazione. Quello stesso processo, nel subcontinente indiano o in Algeria, ha provocato gravi crisi politichela spaccatura fra India e Pakistan nel 1947 alla vigilia dellindipendenza, la guerra di liberazione coloniale fra il 1954 e 1962 tra Francia e Algeriache hanno messo in moto già allepoca importanti flussi migratori verso lEuropa. Laltro fattore risiede nella particolare collocazione geopolitica dellItalia, con il suo doppio versante mediterraneo, quello balcanico e quello arabo-africano, che comprime il paese fra due spinte, una da sud laltra da est investendo questultima sia il litorale adriatico che la terraferma, in particolare la zona di Gorizia. Confinando con la Slovenia, lItalia funge da ponte per limmigrazione vicino-mediorientale e balcanica, dal momento che la Bosnia non richiede agli stranieri il visto dingresso.[38]

Va rilevato che la diversità delle provenienze geografiche non è scevra di conseguenze. Infatti, limmigrato musulmano che risiede in Italia, così come in ogni altro paese non islamico, vive, a seconda del paese da cui proviene, un diverso rapporto tra ordinamento statale e ordinamento religioso. [40] Potrebbe infatti arrivare da uno di quei paesi (Arabia Saudita, Iran, Pakistan, Sudan, Afghanistan) in cui esiste una coincidenza pressoché perfetta tra legge religiosa e legge statale; oppure da Stati (Egitto, Marocco, Siria, Iraq) in cui la legge religiosa, pur costituendo in misura più o meno rilevante uno dei fondamenti della legge civile, viene perὸ da questultima recepita solo parzialmente; o, infine, giungere da Tunisia, Turchia, Senegal, dove la legge statale è completamente, o comunque in larga parte, indipendente da quella religiosa.

Nonostante la ridotta consistenza numerica e il carattere recente dellinsediamento, le comunità islamiche italiane, diversamente da quelle nordeuropee, hanno manifestato sin dallinizio una vitalità associativa e una «visibilità» sociale comparativamente piuttosto elevate: differentemente dai paesi dOltralpe connotati da una presenza islamica più matura, le moschee, in Italia, sono moschee di prima generazione, volute e promosse da immigrati per lo più arrivati anche da relativamente poco tempo. In altri paesi europei la loro diffusione sul territorio è invece da mettere in relazione e in coincidenza con la presenza di una seconda generazione nei confronti della quale si sentiva lurgenza di una trasmissione anche religiosa.[39] Il ridursi dei tempi sociali connessi alla visibilità[40] è attribuibile in particolare, secondo Guolo, allemergere di una leadership comunitaria, di marcato orientamento «islamico», che rivendica la piena visibilità sociale dellislam nella scena pubblica e rifiuta di ridurlo alla sfera privata.[41] Si tratta di immigrati che, infatti, a differenza [41] dei loro predecessori, sono per la maggior parte giovani, di origine urbana, alfabetizzati e, cosa più importante, cresciuti in quei paesi nordafricani e del Vicino Oriente (Algeria, Siria, Egitto) che negli ultimi trentanni hanno conosciuto il cosiddetto «risveglio islamico»,[42] caratterizzato dal fenomeno del «ritorno alla moschea» e dalla richiesta di islamizzazione della società.[43] Ecco perché tali attorioltre a soddisfare, riproponendone la ritualità, i bisogni della fede dei propri correligionarisono capaci di negoziare con lambiente circostante quelle strategie tese a ricreare una comunità in senso islamico.[44] Infatti il loro primo obiettivo è quello di definire un contesto spaziale e simbolico in cui il musulmano possa, attraverso il contatto e limmersione nella purezza della comunità del Profeta, la umma,[45] ridurre il senso disolamento e riadattare i propri codici simbolici necessari per affrontare, saldamente orientati alla religione, lesperienza dellimmigrazione in Occidente.[46] La costruzione sociale dellindividuo necessita [quindi], anche simbolicamente, della separatezza (hiǧra). Così le leadership islamiste [sic!][47] incoraggiano la visibilizzazione di stili di vita e di un sistema dei segni contrapposti ai modelli della cultura dominante circostante. Il velo per le donne, la barba e la stessa ǧallābiyya (la lunga veste bianca) indossata dagli uomini, ogni qualvolta è possibile e comunque nel tempo della preghiera e delle ritualità canoniche, sono tutti elementi che mirano a rinforzare il «noi» sotteso allidentità islamica.[48] Insomma, sono leader [42] la cui preoccupazione principale è quella di trasmettere un sistema di valori e norme di comportamento relativi alla condotta del musulmano nel nuovo ambiente intriso di «tentazioni»: ateismo e materialismo, ineguaglianza sociale, diffusione massiccia della criminalità, depravazione sessuale, droga e alcolismo, prostituzione; essi vi contrappongono «la civiltà dellislam».[49] A perseguire una strategia di inserimento di tipo comunitario sono, dunque, prevalentemente i movimenti «islamici»,[50] tra cui un ruolo di spicco è svolto dai Fratelli Musulmani (al-iḫwān al-muslimūn),[51] alla cui ideologia si ispirano i dirigenti di quelle moschee che sono simpatizzanti o aderenti allUnione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII[52]).[53]

I movimenti «islamici» non esauriscono, perὸ, la tipologia delle forme attraverso cui gli immigrati musulmani esprimono la loro appartenenza [43] allislam. Questultima, infatti, trova espressione in altre due forme organizzative: l«islam degli Stati» e le confraternite religiose.

Lazione degli Stati islamici consiste nellinsieme di quelle iniziative poste in essere dagli Stati allo scopo di promuovere la «versione» dellislam da essi sostenuta e sulla quale molto spesso basano la propria legittimazione politica. Lesempio più evidente di questa azione è la grande moschea di Roma che è direttamente connessa con la diplomazia e con il governo di vari Stati islamici.[54] Infatti, i costi per la costruzione della moschea di Monte Antenne,[55] sede del Centro Culturale Islamico dItalia, lunico ad aver ottenuto, nel dicembre del 1974, il riconoscimento ufficiale da parte dello Stato, e ad avere nel proprio consiglio di amministrazione gli ambasciatori di molti Stati islamici sunniti presso lItalia o presso la Santa Sede,[56] sono stati prevalentemente sostenuti dallArabia Saudita tramite la Lega del mondo musulmano, organizzazione saudita che ha la triplice finalità di assicurare il sostegno allislam sul piano internazionale, soprattutto dove i musulmani rappresentano una minoranza, di promuovere la missione islamica presso i non musulmani in Europa e altrove, e di controllare il «tipo» dislam praticato, influenzandolo per quanto possibile in senso conservatore.[57] Particolarmente funzionale al perseguimento di questultimo obiettivo è linterpretazione dellislam propria della dottrina wahhābita,[58] che, basata sul significato letterale del Corano e sulla rigida applicazione della šarīʿa, propugna una versione conservatrice dellislam per la quale la dimensione giuridica, politica e sociale del vivere devono essere religiosamente legittimate. Esempio concreto dellapplicazione della dottrina wahhābita è [44] appunto lArabia Saudita[59] che, per questa ragione, sembra essere contestata, allinterno del Centro Culturale Islamico dItalia, da altri Stati come lEgitto, il Marocco e la Tunisia, che, perseguendo sul piano interno un indirizzo politico volto a realizzare una progressiva democratizzazione, cercano invece di tenere a freno ogni sorta di radicalismo, a tal fine promuovendo, anche tra i loro immigrati in Italia, un islam non militante e non troppo conservatore. Emblematico è, da questo punto di vista, il caso dei tunisini. La Tunisia esercita un controllo sui propri immigrati soprattutto in Sicilia: celebre è il caso di Mazara del Vallo, in cui risiede una popolosa colonia tunisina, dotata dal governo di origine di una scuola elementare che segue i programmi ufficiali della madrepatria, con insegnamento in arabo e francese. A Mazara tuttavia lambiente tunisino è allapparenza laicizzato e non esiste alcuna moschea. La mancanza di luoghi di culto islamici è dovuta probabilmente al fatto che i residenti tunisini continuano ad avere rapporti con il paese dorigine, in cui si recano per le principali festività religiose, e daltra parte lo Stato tunisino sembra non incoraggiare lapertura di moschee per timore che diventino luogo di «fondamentalismo». Laddove se ne richiede lapertura esso si adopera per esercitare un controllo sulla loro gestione. Così in Sicilia lo Stato tunisino ha assunto la gestione della moschea di Palermo tramite un accordo con il governo regionale siciliano: lambasciata tunisina in Italia ne nomina limām e ne segue lattività attraverso lAssociazione culturale islamica di Palermo.[60] Analoghe sono le strategie adottate, sia pur in maniera più temperata, da altri Stati, come ad esempio il Marocco e lEgitto.

Proponendo una strategia non imperniata sul radicalismo, lazione di questi Stati, eccezion fatta per quella saudita, finisce con lentrare in contrasto con la leadership islamica, sostenitrice, invece, di un islam militante. Il comunitarismo «islamico» conduce una lotta aperta anche nei confronti del cosiddetto «islam nascosto», ossia la «non visibilizzazione» religiosa scelta dalle confraternite (ṭarīqa, pl. ṭuruq) ṣūfī, che costituiscono la terza forma con cui si presenta lislam in Italia.[61] La [45] ṭarīqa più importante è quella muride del Senegal cui appartengono la maggior parte (ca. il 70%) dei senegalesi immigrati nel nostro paese. Questi ultimi compaiono [sulla scena pubblica] esclusivamente in quanto «senegalesi», mettendo laccento sulla dimensione etnonazionale, più che come musulmani. Lo si evince anche dal tipo di attività che essi svolgono, che ha finalità dirette più allintegrazione pluralistica e alla trasformazione dei concetti di cittadinanza nella società ospite, che alla rivendicazione religiosa comunitaria. Essi propongono dunque una rappresentazione identitaria legata alla cittadinanza piuttosto che allidentità religiosa.[62]

Alle confraternite tradizionali bisogna poi aggiungere alcuni gruppi di ispirazione ṣūfī costituiti prevalentemente da convertiti italiani. Lesempio più noto di questi gruppi è la COREIS (Comunità Religiosa Islamica), già Associazione per linformazione sullislam in Italia, guidata dallo šayḫ Pallavicini, con sede a Milano.

Pacini fa notare come i principali centri di competizione in Italia appartengano a ognuna delle tre grandi categorie in cui trova espressione lislam organizzato: lislam degli Stati è infatti rappresentato dal Centro Culturale Islamico dItalia; lislam militante è variamente rappresentato dalle moschee e dai centri islamici che aderiscono allUCOII; lambito dellislam ṣūfī e larea delle confraternite sono rappresentati dalla COREIS. A questi va poi aggiunta lAssociazione dei Musulmani Italiani (AMI), che ha come proprio carattere specifico quello di accettare come membri effettivi solo cittadini italiani e chi si proclama seguace dellislam sunnita, in aperta polemica con i Fratelli Musulmani e con lislam militante dellUCOII.[63] Anche in Italia, quindi, come nel resto [46] dEuropa, si è di fronte ad una frammentazione e ad una competizione delle organizzazioni islamiche che rende difficile, per lo Stato italiano, il compito di trovare un interlocutore realmente rappresentativo con cui poter trattare le condizioni che stabiliscano lo status dei musulmani in Italia. Limpossibilità di produrre una rappresentanza unitaria dellislam italiano è palesata dalla presentazione, da parte delle organizzazioni islamiche (ad eccezione del Centro Culturale Islamico dItalia) di ben tre bozze dintesa[64] con cui si chiede di dare cittadinanza, allinterno dellordinamento giuridico italiano, ai tratti maggiormente espressivi dellesperienza religiosa islamica. Le rivendicazioni contenute in tali bozze, che non sono molto diverse da quelle avanzate dai musulmani negli altri paesi europei, sono state, di recente, oggetto di attenta analisi da parte di un gruppo di studiosi di diritto ecclesiastico.[65]

Da questa analisi è emersa, innanzitutto, unarea in cui le richieste avanzate nelle bozze dintesa possono essere accolte fin dora sulla base della legislazione vigente: in riferimento alla costruzione e manutenzione degli edifici di culto e alla concessione di reparti separati allinterno dei cimiteri nonché al rispetto delle esigenze religiose islamiche in materia di macellazione; per labbigliamento; con qualche limite, in ambito lavorativo; per buona parte della problematica scolastica e dellassistenza spirituale nelle carceri, disciplinata dal recente regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354.

In altri casi è necessario un intervento legislativo, attuabile perὸ nellambito della legislazione unilaterale dello Stato. In relazione al rispetto delle festività religiose e dei «tempi di preghiera», si potrebbe provvedere con una norma che rinvii ad accordi tra lavoratori e datori di lavoro, sulla falsariga di quanto già avviene in alcune regioni. Qualcosa di analogo potrebbe essere previsto per la giustificazione delle assenze [47] scolastiche nelle festività religiose e nei «tempi di preghiera», attribuendo agli istituti scolastici il potere di regolare questa materia con disposizioni calibrate in relazione al numero delle richieste avanzate dagli alunni.

Infine vi sono materie che possono essere regolate solo per via di intesa. È il caso dellinsegnamento della religione islamica nelle scuole (con tutti i problemi connessi allindividuazione del personale insegnante) o dellaccesso al riparto dellotto per mille dellIrpef destinato alle confessioni religiose (con tutti i problemi connessi alla gestione di questa risorsa ed alla sua eventuale distribuzione fra le diverse comunità islamiche). In questi casi sarebbe preferibilepiuttosto che rimandare ogni soluzione ad una futura intesa generaleprocedere per via dintese specifiche e settoriali: da un lato, è probabilmente più facile che le diverse organizzazioni islamiche trovino un accordo su una questione particolare e circoscritta che sul complesso di questioni racchiuse in unintesa generale; dallaltro, le intese particolari potrebbero essere il modo per avviare il processo di costruzione di una reale rappresentanza e per verificarne la solidità in vista di una successiva intesa generale.

Il principale ostacolo alla realizzazione di questultima è dato proprio dalla mancanza di un unico organismo che rappresenti la comunità islamica italiana.

Sul terreno più propriamente giuridico è stata avanzata, per superare questa empasse, la proposta di stipulare molteplici intese con i diversi soggetti rappresentativi dellislam italiano. Rispetto a questa ipotesi, che non pone problemi sul piano tecnico, va chiarito in via preliminare che le organizzazioni che rivendicano la rappresentanza dellislam italiano non ricalcano le grandi divisioni religiose e giuridiche dellislam: né quella tra sunniti e sciiti né quella tra le scuole ḥanafita, mālikita, šāfiʿita e ḥanbalita. Un tale rilievo getta unombra sulla possibilità di considerare queste organizzazioni al pari delle diverse confessioni religiose cristiane e di replicare quindi, in riferimento alle prime, il modulo delle intese plurime che è stato applicato con le seconde. Le divisioni che separano le organizzazioni islamiche italiane non corrono in primo luogo lungo linee religiose, ma presentano motivazioni prevalentemente ideologiche e politiche: pare quindi legittimo chiedersi se concludere con esse più intese non significherebbe forzare la nozione di confessione religiosa e di conseguenza il testo dellart. 8 Cost., che limita la possibilità di stipulare intese alle rappresentanze di confessioni religiose. Inoltre, secondo Cilardo questa soluzione sarebbe inaccettabile per i musulmani in quanto essi credono nellunità religiosa, anche se non più politica, della [48] Umma islāmiyya (comunità islamica). Sarebbe errato ritenere che il concetto di Umma abbia oggi un valore puramente teorico. Esso, invece, ha conservato tutto il suo carattere pregnante per la vita religiosa e civile dei musulmani in senso religioso e dottrinale. Essendo la Umma linsieme di tutti i musulmani uniti dal vincolo di ununica legge religiosa (šarīʿa), sarebbe illogico pensare che ogni associazione islamica possa stipulare una propria intesa con lo Stato italiano, in quanto il contenuto dellintesa, nelle linee essenziali, non potrebbe essere diverso per ogni gruppo di musulmani.[66]

Alla luce di tutto questo, alla domanda che spesso ci si è posti negli ultimi tempi, ossia se riconoscere allimmigrato musulmano il diritto al mantenimento della propria identità comporti come conseguenza il riconoscimento del diritto di vivere secondo le proprie regole giuridico-religiose, si puὸ rispondere sostenendo che, anche se lidentità confessionale esprime un valore costituzionalmente garantito, tale valore non è sovraordinato; vale a dire che, non solo lordine dello stato va distinto dallordine delle confessioni, ma che questa distinzione «presuppone la primazia (di fatto, ma anche assiologica) della sovranità dello stato, e dei valori che ne esprimono gli aspetti essenziali, nel suo ordine», primo fra tutti «il principio supremo di laicità».[67] In definitiva, uno Stato che si dichiari laico, anche se come quello italiano particolarmente attento alle esigenze religiose, non puὸ consentire, e di fatto non consente, il prevalere del precetto religioso su quello civile. Quindi il musulmano, cittadino o straniero che sia, non puὸ chiedere allo Stato il diritto di poter legittimamente applicare i propri precetti religiosi quando questi si pongono in conflitto con i diritti inviolabili delluomo che vengono riconosciuti e garantiti dalla costituzione.[68]



* Questo articolo costituisce una sintesi della mia tesi di laurea in Diritto musulmano e dei paesi islamici, intitolata Immigrazione islamica e ordinamento giuridico italiano: conflitti ipotizzabili e soluzioni possibili, discussa presso la Facoltà di Scienze Politiche dellIstituto Universitario Orientale di Napoli (a.a. 19992000), presentata dal Prof. Agostino Cilardo.

[1] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia. Dinamiche organizzative e processi di interazione con la società e le istituzioni italiane», in Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 21.

[2] Per ciclo migratorio sintende il processo attraverso il quale popolazioni appartenenti ad uno spazio economico periferico entrano, si stabiliscono e sinsediano nello spazio di uno Stato-nazione che appartiene ai poli centrali delleconomia capitalistica; cf. Dassetto, F., Bastanier, A., Europa: nuova frontiera dellIslam, Edizioni Lavoro, Roma, 1991, p. 251.

[3] Cf. Collinson, S., Le migrazioni internazionali e lEuropa, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 3540.

[4] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 23.

[5] Cf. Lonni, A., Mondi a parte. Gli immigrati tra noi, Paravia, Torino, 1999, p. 37.

[6] Cf. Melotti, U., «Migrazioni internazionali e integrazione sociale: il caso italiano e le esperienze europee», in Delle Donne, M., Melotti, U., Petilli, S. (a cura di), Immigrazione in Europa. Solidarietà e conflitto, CEDISS (Centro Europeo di Scienze Sociali), Roma, 1993, p. 37.

[7] «Islam in Europa e in Italia», numero monografico della rivista XXI secolo Studi e ricerche della Fondazione Giovanni Agnelli 2 (1994), p. 3. Nello stesso senso cf. anche Perocco, F., «LItalia nella costruzione dellislam europeo», in Saint-Blancat, C. (a cura di), Lislam in Italia. Una presenza plurale, Edizioni Lavoro, Roma, 1999, pp. 4849.

[8] Cf. Ivi, p. 49.

[9] Cf. Dassetto, F., «Il nuovo Islam europeo», in Ferrari, S. (a cura di), LIslam in Europa. Lo statuto giuridico delle comunità musulmane, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 20.

[10] Sulla crisi petrolifera del 1973, cf. Guarracino, S., Storia degli ultimi cinquantanni. Sistema internazionale e sviluppo economico dal 1945 ad oggi, Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 317321.

[11] Cf. Lonni, A., Mondi a parte, p. 39; Bonifazi, C., Limmigrazione straniera in Italia, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 69.

[12] Esso veniva infatti garantito in tutti i paesi dellEuropa occidentale in virtù delladesione da parte di questi ad alcuni strumenti giuridici internazionali in materia di diritti umani quali, ad esempio, la Convenzione europea dei diritti delluomo che invoca il rispetto della vita familiare; la Dichiarazione universale dei diritti delluomo che afferma che la «famiglia è lunità naturale e fondamentale della società e dello stato» (art. 16); il Patto internazionale sui diritti civili e politici; e lAtto finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, che stabilisce norme per il ricongiungimento familiare; cf. Collinson, S., Le migrazioni internazionali, p. 121, nota 62. Circa il fatto che i flussi che costituivano la nuova fase del ciclo migratorio islamico fossero dovuti in prevalenza da ricongiungimenti familiari, cf. Melotti, U., «Migrazioni internazionali», p. 58.

[13] Pacini, A., «I musulmani in Italia», pp. 2324.

[14] Perdita causata dallalto tasso di disoccupazione conseguente alla recessione economica di quegli anni.

[15] Cf. Dassetto, F., Bastanier, A., Europa: nuova frontiera dellIslam, pp. 117118; Dassetto, F., LIslam in Europa, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino, 1994, pp. 6566; Allievi, S., Dassetto, F., Il ritorno dellislam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, Roma, 1993, pp. 2930.

[16] Cf. Ivi, p. 29; Dassetto, F., «Il nuovo Islam europeo», p. 20.

[17] Allievi, S., Dassetto, F., Il ritorno dellislam, p. 30.

[18] Sembra perὸ che la preoccupazione di trasmettere lislam, più forse come nucleo di valori che come fede, interessa linsieme della popolazione musulmana perché il fallimento della socializzazione, soprattutto nella scuola, e i fenomeni di deviazione colpiscono pesantemente le giovani generazionisoprattutto maschilie mettono ampiamente in discussione lazione di socializzazione non musulmana, nelle quali le famiglie avevano riposto molte speranze. Emerge quindi in maniera crescente la convinzione della necessidi ritornare ad una socializzazione islamica, la sola che possa indicare la «retta via» ai giovani che si sono smarriti; cf. Dassetto, F., LIslam in Europa, p. 101.

[19] Secondo Perocco, adesso dal Maghreb, dallAfrica sub-sahariana, dal Medio Oriente, lemigrazione prende la direzione di tutti i paesi europei, anche di quelli in cui non ci sono antiche relazioni coloniali, affinità linguistiche, a volte reti comunitarie già operanti; Perocco, F., «LItalia nella costruzione dellislam europeo», p. 50.

[20] Sulla distinzione tra richiedenti asilo e rifugiati, cf. Collinson, S., Le migrazioni internazionali, pp. 5556.

[21] Cf. Ivi, pp. 125126; Perocco, F., «LItalia nella costruzione dellislam europeo», p. 51.

[22] Cf. Melotti, U., «Migrazioni internazionali», p. 42.

[23] Pacini, A., «I musulmani in Italia», pp. 2425.

[24] Nello stesso senso, cf. Perocco: si verificano mutamenti strutturali nelle società di partenza che condizionano totalmente le pratiche ed i progetti migratori dei nuovi immigrati musulmani. La nuova immigrazione è infatti composta da popolazione prevalentemente giovane, urbana e alfabetizzata, al contrario dei flussi del passato, composti per la maggior parte da una popolazione rurale e analfabeta; Perocco, F., «LItalia nella costruzione dellislam europeo», p. 50.

[25] Cf. Dassetto, F., Bastanier, A., Europa: nuova frontiera dellIslam, pp. 253254.

[26] Questultima richiesta, nella sua formulazione esplicita, è stata avanzata solo in Gran Bretagna. Il primo tentativo volto ad introdurre nellordinamento giuridico inglese uno statuto personale islamico è stato compiuto alla conferenza organizzata a Birmingham nel 1975 dallUnion of Muslim Organizations (UMO) del Regno Unito e dellEire; da allora questa proposta è stata ribadita in numerose altre occasioni. Recentemente, una simile richiesta è stata presentata nel «Muslim Manifesto» pubblicato dal Muslim Institute. Contemporaneamente alla domanda dellUMO di introdurre un sistema di statuto personale, Zaki Badawi ha predisposto un modello di testamento diretto a consentire ai musulmani di disporre delle loro proprietà in modo conforme sia alla legge islamica che a quella inglese: ma il progetto di Badawi non ha suscitato alcun interesse. Fino ad oggi nessun governo britannico ha mostrato la minima propensione ad introdurre uno statuto giuridico personale per i musulmani; cf. Bradney, A., «Lo statuto giuridico dellIslam nel Regno Unito», in Ferrari, S. (a cura di), LIslam in Europa, pp. 182183. Cf. anche Nielsen, S. J., «Il diritto familiare nelle rivendicazioni delle popolazioni musulmane in Europa», in AA. VV., I musulmani nella società europea, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino, 1994, pp. 7989. Sulla complessa problematica relativa alla stipula di unintesa tra lo Stato italiano e la confessione islamica, si veda il recente libro di Cilardo, A., Il diritto islamico e il sistema giuridico italiano. Le bozze di intesa tra la Repubblica Italiana e le Associazioni islamiche italiane, Presentazione di Borrmans, M., Introduzione di Musselli, L., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002.

[27] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 29.

[28] Cf. Bolaffi, G., Una politica per gli immigrati, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 31.

[29] Cf. Ivi, pp. 3132; Pugliese, E., «Limmigrazione», in AA. VV., Storia dellItalia repubblicana, vol. III, tomo I, Einaudi, Torino, 1996, pp. 934935; Tonizzi, M. E., Le correnti migratorie del 900, Paravia, Torino, 1999, p. 143.

[30] Da questo punto di vista, Pugliese fa notare come lItalia stia invece cominciando a rappresentare oggi un caso particolare, dato il crescente inserimento degli immigrati nelle piccole aziende; cf. Pugliese, E. (a cura di), Rapporto immigrazione. Lavoro, sindacato, società, Ediesse, Roma, 2000, p. 15.

[31] Cf. Ibidem.

[32] Cf. Harrison, G., «Antropologia culturale dei processi migratori e i diritti umani», in Damiano, E. (a cura di), Homo migrans, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 132136; Melchionda, E., «Il paradosso italiano», in Delle Donne, M., Melotti, U., Petilli, S., Immigrazione in Europa, pp. 185186; Sgroi, E., «Limpatto economico della immigrazione: teoremi, metafore, realtà», in Sociologia urbana e rurale 60 (1999), p. 35; Natale, M., Strozza, S., Gli immigrati stranieri in Italia, Cacucci, Bari, 1997, pp. 213214. Diversamente per Bonifazi, laumento dei fattori espulsivi spiega solo parzialmente questa dinamica del fenomeno che trova, infatti, allaltro polo, una permanenza, sia pur su parametri qualitativi e quantitativi differenziati, di fattori di richiamo, o almeno di potenziale assorbimento, di natura economica. Settoriali e circoscritti, non più basati su uno squilibrio quantitativo complessivo dei sistemi economici, ma sulla permanenza, in un quadro di generale eccesso di offerta, di squilibri settoriali, a volte di grande intensità, legati ai processi di segmentazione territoriale e settoriale del mercato del lavoro. In questo senso la situazione italiana rappresenta un esempio assai significativo, anche perché la segmentazione del mercato del lavoro e gli squilibri economici settoriali assumono unarticolazione territoriale che trova, con ogni probabilità, pochi riscontri allestero, non solo nella ben nota direttrice Sud-Nord, ma anche per ambiti geografici molto più ristretti e circoscritti, dato che, specie nellItalia centrosettentrionale, la differenziazione assume una veste microterritoriale, con forti connotati di specializzazione produttiva tra aree anche contigue; Bonifazi, C., Limmigrazione straniera in Italia, pp. 175176.

[33] Sullimmigrazione tunisina in Sicilia, cf. Slama, H., ...e la Sicilia scoprì limmigrazione tunisina, INCA-CGIL Sicilia, Palermo, 1986.

[34] Sulle politiche migratorie egiziane, cf. Mancini, L., Immigrazione musulmana e cultura giuridica. Osservazioni empiriche su due comunità di egiziani, Giuffrè, Milano, 1998, pp. 8093.

[35] Cf. Pugliese, E., «Limmigrazione», pp. 937938.

[36] Cf. Pace, E., Perocco, F., «LIslam plurale degli immigrati in Italia», in Studi emigrazione, anno XXXVII, marzo, 137 (2000), p. 4.

[37] Cf. Giannasi, A., «Musulmani in Italia», in Africa 2 (2000), <http://www. cadr.it/islam/00-2-giannasi.htm> (02 aprile 2003).

[38] Cf. Fouad Allam, K., «LIslam contemporaneo in Europa e in Italia fra affermazione identitaria e nuova religione minoritaria», in Zincone, G. (a cura di), Secondo rapporto sullintegrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 334335.

[39] Cf. Allievi, S., «Complessità e dinamiche dellislam in Italia», in El Ayoubi, M., Islam plurale, Edizioni com nuovi tempi, Roma, 2000, p. 95.

[40] Se era intuibile che prima o poi lIslam si sarebbe manifestato con forza in seno alle comunità immigrate anche nel nostro paese (per capirlo bastava dare unocchiata anche distratta a quanto stava accadendo oltre confine dal lato nord, negli altri paesi europei), non altrettanto si puὸ dire della velocità con cui questo è accaduto: superiore, senza dubbio, a quella osservata in altre realtà europee. Lislamizzazione dellimmigrazione, per usare una terminologia anche troppo forte, è avvenuta in Italia più in fretta che altrove: quando gli immigrati si erano appena stabiliti, quando avevano appena disfatto le valigie. LIslam è diventato subito, o quasi, una componente importante del processo di socializzazione degli immigrati; e molto presto una componente visibile anche allesterno, nello spazio pubblico; Allievi, S., «DallIslam ai musulmani. Fare ricerca su una religione immigrata», in Sociologia urbana e rurale 58 (1999), p. 112. Cf. anche Pace, E., Perocco, F., «LIslam plurale», p. 5.

[41] Cf. Guolo, R., «Attori sociali e processi di rappresentanza nellislam italiano», in Saint-Blancat, C. (a cura di), Lislam in Italia, p. 67; Fouad Allam, K., «Lislam contemporaneo», p. 328.

[42] Cf. Allievi, S., Dassetto, F., Il ritorno dellislam, pp. 132134.

[43] Cf. Guolo, R., «È possibile un partito islamico in Italia?», in Limes 4 (1997), pp. 271272; Giannasi, A., «Musulmani in Italia»; Fouad Allam, K., «Lislam contemporaneo», pp. 324326.

[44] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 69.

[45] Sulla concezione della umma nellislam dellimmigrazione, cf. Fouad Allam, K., «Lislam contemporaneo», pp. 326328. Sulle implicazioni giuridiche del concetto di umma, si veda Cilardo, A., «La comunità islamica», in Ende, W., Steinbach, U. (a cura di), Lislam oggi, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1993, pp. 1342.

[46] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 71.

[47] Guolo traduce il termine francese islamiste, che in quella lingua indica i movimenti islamici radicali, con litaliano islamista; tale termine, perὸ, nella nostra lingua vuol dire «studioso di cultura islamica».

[48] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 74; Id., «Europa, terra dIslam», in Il Mulino, anno XLVIII, maggio giugno, 1999, p. 548; nonché Melfa, D., «LIslàm a Catania», in La critica sociologica, luglio settembre, 130 (1999), pp. 6364.

[49] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 70; Id., «È possibile un partito islamico in Italia», p. 278; Id., «Europa, terra dIslam», p. 548.

[50] Di diverso avviso è invece Allievi per il quale per un paradosso solo apparente, questi movimenti politicamente più radicali svolgono in realtà un ruolo implicitamnete «conservatore» e «calmieratore», più di freno che di acceleratore, sulle tematiche legate allimmigrazione e ai diritti dei musulmani, in parte perché timorosi di reazioni, ma soprattutto perché il loro centro di interessi si è «esternalizzato, legato comè alla situazione dei paesi di origine piuttosto che di quello di accoglienza; cf. Allievi, S., «Complessità e dinamiche», p. 98.

[51] Sui Fratelli Musulmani, cf. Cilardo, A., «Su alcune recenti formazioni islamiche», in Goldziher, I., Lezioni sullislām, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000, pp. 325333.

[52] LUcoii nasce nel 1990, per impulso di alcuni membri del Centro islamico di Milano [a sua volta nato, negli anni settanta, per iniziativa dellUnione studenti musulmani in Italia (Usmi) allora molto numerosi in Italia, e fondatore della prima moschea (anche in senso architettonico) italiana: quella di al-Raḥmān o del Misericordioso, inaugurata nel 1988]. LUnione, formata dallassociazione dei maggiori centri islamici italiani, è senza dubbio la struttura musulmana più diffusa nel territorio. Al suo radicamento ha contribuito anche laver «ereditato» le strutture nazionali [moschee, sale di preghiera] dellUsmi [che ha visto, infatti, ridurre sempre più la propria influenza a causa del ridursi del numero di studenti musulmani che si recano in Italia]; Guolo, R., «La rappresentanza dellislam italiano e la questione delle intese», in Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia, pp. 7071.

[53] Sulle moschee italiane vicine ai Fratelli Musulmani, cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 44.

[54] Cf. Ivi., p. 37.

[55] Cf. Allievi, S., «Lombra di San Pietro», in Il Manifesto, 8 agosto 2000.

[56] Nella lotta per lacquisizione della leadership dellislam italiano, tale argomento è stato utilizzato dal Centro Islamico di Milano e della Lombardia per sostenere che il Centro Islamico Culturale dItalia non sarebbe rappresentativo perché promosso dalle ambasciate, e siccome le ambasciate sono extraterritoriali, appartengono ai paesi dorigine, per cui si tratta di stranieri, che come tali non possono pretendere di rappresentare lislam italiano. Cf. Allievi, S., «Organizzazione e potere nel mondo musulmano: il caso della comunità islamica di Milano», in AA. VV., I musulmani nella società europea, pp. 172173.

[57] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 37.

[58] Sul movimento wahhābita e la sua dottrina, cf. Cilardo, A., «Su alcune recenti formazioni islamiche», pp. 307309.

[59] Cf. Reissner, J., «Libia e Arabia Saudita», in Ende, W., Steinbach, U. (a cura di), Lislam oggi, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1993, pp. 501511.

[60] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 39; Schmidt di Friedberg, O., Borrmans, M., «Musulmans et chrétiens en Italie», in Islamochristiana 19 (1993), pp. 160161.

[61] Sulle confraternite, cf. Aluffi Beck-Peccoz, R., «Lislam delle confraternite», in Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia, pp. 5962, nonché Speziale, F., «I sentieri di Allah: aspetti della diffusione dellIslam delle confraternite in Italia», in La critica sociologica, ottobre dicembre, 135 (2000), pp. 1032.

[62] Cf. Guolo, R., «Le tensioni latenti nellislam italiano», in Saint-Blancat, C. (a cura di), Lislam in Italia, p. 167. Nella stessa pagina lautore mette in evidenza come su questa scarsa propensione alla visibilizzazione religiosa, incide probabilmente anche una sorta di interiorizzazione del concetto di separazione tra religione e politica, caratteristica storica di uno Stato come il Senegal, fortemente influenzato dal modello francese di laicità. Pur essendo religione maggioritaria, lislam non è in Senegal religione di Stato. Piuttosto che dal comunitarismo islamista, la presenza dei senegalesi sulla scena pubblica italiana è caratterizzata dal «senegalismo» e da un panafricanismo improntato ai «diritti universali delluomo» che non si pone in contrasto con la cultura del paese ospitante.

[63] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 48.

[64] Cf. «Bozza dintesa tra la Repubblica Italiana e lAssociazione Musulmani Italiani», in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2 (1996), pp. 536545; «Bozza dintesa tra la Repubblica Italiana e la Comunità Religiosa Islamica», in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2 (1998), pp. 567575. La bozza dintesa presentata dallUCOII è disponibile sul sito internet <http://www. islam-ucoii.it/intesa.htm> (02 aprile 2003).

[65] Tale analisi è confluita nel libro, a cura di Silvio Ferrari, Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna, 2000, qui più volte citato, sul quale si veda la recensione di Agostino Cilardo in Journal of Arabic and Islamic Studies 3 (2000), pp. 114126. Per unanalisi del contenuto islamico delle bozze, si veda Cilardo, A., Il diritto islamico e il sistema giuridico italiano.

[66] Cf. Cilardo, A., recensione a: Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia, p. 119.

[67] Cf. Ivi, p. 117.

[68] Cf. Camassa Aurea, E., «Limmigrazione proveniente dai paesi islamici: conflitti ipotizzabili e soluzioni possibili», in Archivio giuridico 215,1 (1996), p. 48.